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L entrata in guerra dell Italia nel 1915
 


Prezzo: €17,50 (incluso 4 % I.V.A.)

J. Hurter, G.E. Rusconi (a cura di)

Gli italiani hanno un rapporto difficile con la guerra. Anche con la guerra che hanno sentito più intimamente, nel bene e nel male: la Grande guerra. Essa è rimasta nella memoria collettiva come "la nostra guerra". Così l'hanno chiamata gli interventisti nel 1915, ma è diventata tale soltanto quando l'hanno fatta propria milioni di uomini, magari maledicendola, nelle trincee. Una guerra che avrebbe creato un enorme potenziale di identificazione nazionale ma che - in fondo - non era desiderata, salvo che da una irruente minoranza, intimidente e seduttiva. Ciò che spinge nella primavera del 1915 alla guerra il governo nazional-liberale di Antonio Salandra e di Sidney Sonnino non è soltanto il desiderio di liberare le terre italiane "irredente", di completare l'opera risorgimentale o di emancipare i popoli danubiani e slavi dalla prigione dell'autocrazia asburgica - come dicono gli interventisti democratici - ma è soprattutto la volontà di conquistare per l'Italia lo status di "grande potenza" nell'area adriatica e balcanica. E' un gesto di politica di potenza forte e pieno. E' un atto del tutto legittimo secondo la logica geopolitica del tempo. La guerra è dunque voluta e imposta dall'alto dalle autorità istituzionali sotto la pressione di minoranze attive e prepotenti, al limite della legalità. Ma l'operazione di attivazione e mobilitazione dall'alto a favore dell'intervento funziona. La popolazione, inizialmente in gran parte perplessa e incerta, si mostra alla fine disponibile, remissiva, disciplinata. Fa un atto di fiducia nella propria classe dirigente. C'è l'attesa di una guerra breve, risolutiva, vittoriosa. Invece lo "sbalzo offensivo" promesso e atteso dai militari e dai politici nell'estate 1915 manca o fallisce miseramente. La guerra si rivela un azzardo.

Brossura pag. 216

Stampato nel 2010 da Il Mulino 


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